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L'etica dell'estetica - Design for All

L’etica dell’estetica

Il contributo di Pete Kercher esplora la relazione tra etica ed estetica nel design, ponendo in discussione la dicotomia suggerita dallo slogan “Less Aesthetics, More Ethics” della Biennale di Venezia. L’autore sostiene che una maggiore consapevolezza etica nel progetto non debba necessariamente comportare un compromesso estetico. Al contrario, argomenta come estetica ed etica possano coesistere e rafforzarsi reciprocamente, soprattutto nell’era del design sostenibile e inclusivo.

 

Kercher sottolinea l’importanza di progettare ambienti e prodotti non solo per soddisfare esigenze estetiche, ma anche per promuovere inclusione, accessibilità e sostenibilità. L’autore analizza come i cambiamenti demografici, l’invecchiamento della popolazione e l’integrazione dei diritti delle persone con disabilità stiano ridefinendo il panorama del design, spingendo verso soluzioni che migliorano la qualità della vita di un pubblico sempre più ampio e diversificato.

 

La conclusione del documento propone una visione del design come strumento per rispondere ai bisogni della società contemporanea. L’etica dell’estetica emerge come un principio fondamentale, in cui la bellezza non è sacrificata, ma integrata in un processo progettuale orientato al benessere umano, alla sostenibilità e alla creazione di valore per il maggior numero di persone possibile.


Autore:
Pete Kercher


Articolo integrale:

 

L’etica dell’estetica

 

A dar retta allo slogan della 7. Mostra Internazionale dell’Architettura alla Biennale di Venezia (Less Aesthetics, More Ethics), si tratterebbe di una scelta, di uno spartiacque: di qua l’estetica, di là l’etica. La tensione recente sarebbe verso più della seconda, ma al costo di rinunciare a una parte della prima.
Mentre una tendenza verso una coscienza più spiccata dell’etica nel progetto ci deve rallegrare, dubito che sia proprio necessaria l’introduzione del brutto come parte dell’equazione. Dubito, cioè, che si debba per forse lasciare alle spalle l’estetica per potersi avventurare sul terreno dell’etica. L’intera cosa mi puzza di puritanesimo, con un tocco malsano di autolesionismo. Non ci sto.

 

Senza lasciare il capitolato degli slogan, poi, il ricordo di quel che è forse il più celebre slogan del design, Form folgt Funktion, di ulmiana memoria, deve indicare che l’ipotesi che estetica (Form) possa addirittura seguire (folgt) l’etica (Funktion) non è proprio del tutto nuova, almeno al design.
Eppure lo slogan della Biennale ha colto nel segno dei tempi attuali: si avverte la presenza di una nuova coscienza che vede nello sviluppo sostenibile, per esempio, un valore più sostanziale di molte delle scelte più esplicitamente ‘estetiche’ e certamente più effimere dei decenni passati. Laddove negli anni ‘60 – ma anche e ancora per buona parte degli stessi anni ‘80 – l’utilizzo di risorse rinnovabili per la fabbricazione del prodotto e il riciclo dei componenti alla fine della sua vita utile non facevano parte né del briefing del cliente, né del bagaglio culturale del progetto, gli anni ’90 hanno testimoniato all’arrivo definitivo del linguaggio dello sviluppo sostenibile nel lessico del progetto. E così compiuto è questo atto di arrivo che difficilmente possiamo immaginare oggigiorno l’assegnazione di un Compasso d’Oro ad un progetto – per quanto esteticamente bellissimo – che prevedesse l’utilizzo di una risorsa non soltanto non rinnovabile, ma addirittura in pericolo d’estinzione, come per esempio l’avorio.

 

Ma la nuova etica non si ferma qui. Sarebbe un mondo molto strano, quello del progetto, se imparasse un rispetto più spiccato per le risorse esanime del pianeta, così mostrando di prendersi cura dell’umanità del futuro, ma trascurasse allo stesso tempo di mettere la propria pratica più nitidamente a fuoco sulle persone che costituiscono l’umanità del presente.

 

Chi sono allora queste persone? C’è qualcosa che rende significativamente differente l’umanità del presente da quella del passato? Al di là dei progressi culturali, sociali, economici e anche tecnologici, al di là dei discorsi un po’ noiosi sul nuovo millennio (alzi la mano che non l’ha già sentito nominare fino alla nausea), perché il bipede che popola questo pianeta sta aprendo un capitolo nuovo nella propria storia?
Non è un motivo unico che dobbiamo cercare, ma una confluenza di motivi.

 

Il primo e visibilmente più evidente di questi motivi è il repentino invecchiamento della popolazione nel mondo sviluppato. Vuoi per l’effetto di una prevenzione medica e l’assistenza più efficaci, vuoi per una dieta più sana (almeno fra coloro che oggi sono anziani, che hanno avuto la fortuna di crescere in un mondo ancora privo del temibile fenomeno del fast food transatlantico), vuoi per l’assenza della guerra di massa, oggigiorno la vita non è solo più lunga, è anche più lungamente attiva e potenzialmente produttiva, nonché certamente consumatrice. La grande evoluzione demografica non solo cambia la norma (ossia la media statistica) antropometrica per la quale si progetta: mette in forse il principio stesso della media statistica come norma. Davvero la semplice media va bene per soddisfare il numero più grande? Allora prendiamo tutte le ruote su tutti i veicoli in una città, dividiamo per il numero di veicoli, e vediamo se andiamo bene con una media statistica di, forse, 5,8 ruote per ogni veicolo….

Un altro motivo deriva ugualmente dai miglioramenti compiuti nelle cure sanitarie e, in questo caso, spesso anche nelle pratiche di riabilitazione: il disabile, oggi, è in grado non solo di vivere una vita migliore, ma di contribuire anche economicamente al bene comune – se ha l’opportunità di farlo – e anzi ne rivendica il diritto. Un po’ come negli anni ’60 il presidente della Tanzania, Julius Nyerere, reclamava “Trade not Aid” (commercio, non assistenza), il mondo della disabilità oggi rivendica il diritto di partecipare pienamente nella vita sociale, culturale ed economica, invece di vivere una mera esistenza assistenziale, comodamente (per noi?) assestato nel suo dimenticatoio.

 

Da un mondo ad un altro: cosa può – deve – fare quello del progetto? Quel che già fa di mestiere: progettare il mondo del costruito, del fabbricato, dell’umanamente creato, con il coinvolgimento dell’utente finale e per servire le sue esigenze, piuttosto delle esigenze di proiezione dell’immagine del sé.
L’umanoide è sopravvissuto perché ha saputo evolversi per ovviare ai pericoli sempre insiti nella vita. Fondamentale nel processo dell’evoluzione è stato lo sviluppo della coscienza di sé e della propria capacità di adattamento all’ambiente. Più tardi, però, l’umanoide, nel frattempo evolutosi fino al rango di essere umano, ha messo in atto un altro processo: quello dell’adattamento dell’ambiente alle proprie esigenze. Con un successo senza precedenti nella storia delle specie terrestri, ha sviluppato l’agricoltura e quindi la società sedentaria, ha costruito il proprio alloggio e creato strumenti, prodotti e comunicazioni. Ma non ha mai dimenticato che discende dall’umanoide che doveva adattarsi: infine, la sua reazione più spontanea rimane anche oggi quella di adattare non l’ambiente che in grande parte ha creato, ma se stesso per ovviare alle difficoltà che quell’ambiente gli procura.

 

Ma ecco il controsenso: se è stato l’uomo a creare il suo ambiente, perché mai si deve adattare continuamente per sopravviverci? La risposta può essere una sola: perché l’ha creato male, oppure creato bene dopo averlo progettato male.

 

Recita la prima legislazione a favorire i diritti del consumatore (così efficace da rendere ogni altra successiva legge un mero atto di pubbliche relazioni politiche – sebbene al momento non fu questa l’intenzione primaria), l’articolo 1 della britannica Sale of Goods Act, del 1896, “Ogni bene dev’essere adatto allo scopo per il quale è stato venduto” – seguono naturalmente le possibilità di riparazioni nel caso che la legge non venga rispettata.

 

Perché cito all’improvviso la legislazione dei consumi? Perché ci ricorda che un prodotto, per meritarsi il Compasso d’Oro, deve essere “adatto allo scopo”, non già soltanto lo scopo stretto per il quale è stato progettato, ma quello maggiore di appartenere all’ambiente umano, per cui non deve alienare, emarginare o mettere in pericolo l’utente – per quanto possa essere un prodotto esteticamente bellissimo e anche se non contiene avorio. E perché indica la direzione della nuova etica: la direzione della soddisfazione del mercato più ampio possibile, la direzione del coinvolgimento di più utenti nella creazione e nell’utilizzo dei prodotti del progetto bi- e tridimensionale, la direzione, infine, che finisce anche per vendere di più proprio perché si appella ad un mercato più vasto, per cui fa l’interesse non solo dell’etica morale, ma anche dell’etica economica e dell’impiego.

 

Per concludere: la nuova etica non deve significare l’abnegazione dell’estetica; non deve significare l’altruismo predicato (da alcuni) negli anni ’60. È un’etica concreta per un mondo concreto, un’etica della produzione e della soddisfazione delle esigenze del massimo numero possibile di persone. E – perché no? – è anche l’etica dell’estetica.

 

 

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Tags

Accessibilità, Cambiamenti demografici, Design for All, Design sostenibile, Diritti delle persone con disabilità, Estetica, Etica, Inclusione, Innovazione, Progettazione sociale